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Pagine Azzurre

Posts written by Monnalisa

view post Posted: 16/4/2024, 16:59 Elezioni americane 2024 - Politica estera

INTERVISTA ALLO SCRITTORE DON WINSLOW

«Trump va fermato, è in gioco la democrazia»

Lo scrittore ha annunciato che smetterà di scrivere per dedicarsi alla lotta politica. «Il tycoon convince i suoi elettori usando disinformazione, populismo e xenofobia»



Lo scrittore Don Winslow


Don Winslow è nel suo ranch a Julian, una piccola città non lontana da San Diego, dove vive da 26 anni. Sta riposando da due giorni, prima di ripartire per il tour di presentazioni del suo ultimo libro, "Città in rovine", dopo il quale non ne scriverà più: ora la sua missione è un'altra. La sua voce è pacata, lo sguardo intenso, la volontà netta e precisa: «Penso sia meglio spendere le mie energie in una nuova battaglia».

Trump è il primo presidente – o ex presidente – nella storia ad affrontare un processo penale. Lei ha detto che non è solo politicamente imbarazzante ma anche moralmente preoccupante. Cosa vedono ancora in lui i suoi sostenitori? E perché la sua candidatura è ancora così forte?
«Credo principalmente per tre motivi. Il primo è che i suoi sostenitori sono soggetti a una disinformazione di massa, sia da parte dei social media che delle emittenti televisive tradizionali, principalmente Fox News. Quindi le sue bugie vengono diffuse senza alcun contraddittorio, come se fossero verità acclarate. Ma il secondo motivo fa ancora più presa ed è tipico di ogni vero populista. Trump ha, da puro demagogo, la capacità di far sentire importanti i suoi sostenitori, che in realtà ai suoi occhi non hanno nessuna reale importanza. Ma lui li fa sentire ascoltati, grazie anche al primo dei tre motivi. Il terzo motivo per la sua altrimenti inspiegabile presa sull'elettorato è che attinge alle opinioni più sovraniste, xenofobe e bigotte che siano disponibili su piazza. E, purtroppo, sulla piazza ce ne sono parecchie e fanno presa su una parte molto tradizionalista dell'elettorato».

Lei teme che, anche a causa di questo processo a New York assisteremo ad altre azioni violente da parte dei suoi sostenitori? C’è secondo lei da aspettarsi qualcosa di simile all'assalto al Campidoglio?
«Sì, sono preoccupato, dato che abbiamo un precedente specifico, come lei ha spiegato, e che la violenza è sempre una base da cui partire per la destra (ahimè, non solo negli Stati Uniti)».

Data la natura aggressiva e potenzialmente violenta di molti suoi sostenitori, come dovrebbe essere la reazione civile ai toni prevedibilmente violenti e populisti della prossima campagna pro Trump?
«Bisogna usare un linguaggio semplice e duro, e usarlo il più spesso possibile. Bisogna motivare la base democratica ad andare votare e ad essere attiva. Dire con forza e senza paura la verità a quegli elettori che potrebbero essere indecisi. Sottolineare con molta chiarezza che è in gioco la democrazia stessa».

Quali conseguenze a breve e lungo termine porterà una figura pubblica così controversa nella società e nella cultura americana?
«Ebbene, Trump ha già esasperato un profondo divario nella cultura politica americana, che esisteva da prima della nostra guerra civile. Il danno che quest'uomo spregevole ha causato in pochi anni è incommensurabile e richiederà molto tempo per essere riparato».

Cosa spera per il Paese nei prossimi mesi?
«È molto semplice: che riusciamo a sconfiggere Trump e il suo movimento neofascista. Questo è quello che spero con tutte le mie forze».


La Stampa, 16 aprile 2024
view post Posted: 16/4/2024, 16:45 Mario Draghi, scossa all'Europa - Affari, finanza, lavoro

Draghi: «Proporrò cambiamenti radicali, l'Europa deve agire insieme come mai prima»

Secondo Draghi, serve un cambiamento radicale perché manca una strategia comune per rispondere a Usa e Cina



Nel suo rapporto sulla competitività, Mario Draghi proporrà «un cambiamento radicale» per l'Unione europea. E anche se «non possiamo permetterci il lusso di aspettare una modifica dei Trattati», l'ex presidente del Consiglio è convinto che l'Ue vada «ridefinita con un'ambizione non inferiore a quella che avevano i padri fondatori». Perché l'attuale organizzazione «è stata disegnata per il mondo di ieri, pre-Covid, pre-guerra in Ucraina e pre-crisi in Medio Oriente», mentre bisogna avere un'Unione Europea «adatta al mondo di oggi e di domani».

Draghi ha svelato i contorni del suo lavoro, che sarà presentato alla fine di giugno, durante la conferenza sul pilastro europeo dei diritti sociali in corso a La Hulpe, poco fuori Bruxelles. Nel corso del suo intervento ha puntato il dito contro «la mancanza di strategia industriale» a livello europeo per colmare il divario con i principali competitor, soprattutto Cina e Stati Uniti. Ha sottolineato che «il mondo sta cambiando rapidamente», alcuni attori globali «non rispettano più le regole» e tutto questo «ci ha colto di sorpresa».

Draghi ha citato una serie di elementi che dimostrano la debolezza europea dovuta alla sua eccessiva frammentazione, ricordando per esempio che nel mercato delle telecomunicazioni esistono 34 operatori nazionali, mentre gli Usa ne hanno tre e la Cina quattro. Una caratteristica che non consente di fare progressi nel campo del 5G. Tutto questo perché l'Ue «non ha mai avuto la possibilità di stipulare un patto industriale equivalente a quello degli Stati Uniti», i quali da un lato «stanno utilizzando una politica industriale su larga scala per attrarre capacità manifatturiere nazionali di alto valore all'interno dei suoi confini, compresa quella delle aziende europee» e dall'altro hanno adottato misure protezionistiche «per escludere i concorrenti e sfruttare il proprio potere geopolitico per riorientare e proteggere le catene di approvvigionamento».

Al tempo stesso c'è il tema degli oneri amministrativi «che minacciano direttamente la capacità delle aziende europee di competere: senza azioni politiche studiate e coordinate, è logico che alcune nostre industrie spegneranno le loro capacità e delocalizzeranno fuori dall'Ue». Così come quello dei vincoli legati alla transizione ecologica: «Abbiamo giustamente un'agenda climatica ambiziosa in Europa, con target rigidi per i mezzi elettrici. Ma in un mondo in cui i nostri rivali controllano molte delle risorse che ci servono, quest'agenda dev'essere combinata con un piano per garantire la nostra catena di approvvigionamento, dai minerali critici, alle batterie, alle infrastrutture di ricarica».

C'è poi il problema degli investimenti («Noi investiamo meno di Stati Uniti e Cina nel digitale e nelle tecnologie avanzate, compresa la Difesa»). E qui Draghi ha ribadito la necessità di fare nuovo debito comune, ma ha ricordato che non basterà perché servono anche enormi risorse private. In Europa «ci sono molti risparmi», ma la mancanza di un mercato unico dei capitali fa sì che questi vengano «per lo più incanalati in depositi bancari e non finiscano per finanziare la crescita». Si è dunque unito al coro di chi chiede di finalizzare al più presto l'unione dei mercati di capitali e ha appoggiato la richiesta francese di procedere con un'integrazione tra i Paesi volontari, pur sottolineando che «di regola l'Unione europea dovrebbe muoversi insieme, possibilmente sempre. Non possiamo ripristinare la nostra competitività muovendoci da soli o gareggiando a vicenda», ma bisogna «agire come Unione europea come non abbiamo mai fatto prima».


La Stampa, 16 aprile 2024

Edited by Monnalisa - 16/4/2024, 18:59
view post Posted: 16/4/2024, 16:30 Lo storico Luciano Canfora, denunciato da Giorgia Meloni - Politica italiana

Canfora a processo. Meloni chiede 20 mila euro di risarcimento

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L'arrivo di Luciano Canfora in Tribunale


Al termine dell'udienza pre-dibattimentale, svolta questa mattina presso il Tribunale di Bari, è stato confermato il rinvio a giudizio, già avanzata dalla Procura di Bari, per Luciano Canfora, professore emerito dell'Universtià di Bari e imputato per diffamazione aggravata nei confronti di Giorgia Meloni, in relazione ad un episodio di cui si è parlato diffusamente nei post precedenti e che risale a due anni fa (11 aprile 2022). Il processo comincerà il 7 ottobre dinanzi al giudice monocratico Pasquale Santoro.

Richiesta di risarcimento. Giorgia Meloni si è costituita parte civile e ha chiesto un risarcimento danni di 20mila euro. «La domanda risarcitoria è motivata - si legge nella memoria dell'avvocato di Meloni, Luca Libra - anzitutto, dal pregiudizio psicofisico sofferto e, soprattutto, dalla lesione alla reputazione, all’onore e all’immagine di Meloni».

La difesa. «Abbiamo discusso e chiesto una sentenza di non luogo a procedere perché il fatto non sussiste o perché non costituisce reato o perché non punibile per esercizio del diritto di critica, in particolare del diritto di critica politica» ha detto l'avvocato di Canfora, Michele Laforgia.

Il sostegno a Canfora. «Professore in bocca al lupo, noi siamo tutti qua». Lo storico, filologo e professore emerito, Luciano Canfora, è arrivato in tribunale a Bari accolto da alcuni manifestanti, ricevendo parole di rispetto e pacche sulle spalle. Fuori dal palazzo di giustizia di via Dioguardi, anche delle bandiere. L'azione di Meloni è stata bollata come «un atto di intimidazione». L'Anpi, l'associazione nazionale partigiani italiani, è in «presidio democratico» con lo slogan «La critica non è diffamazione». In vista dell'udienza, in molti hanno sottoscritto un appello di solidarietà nei suoi confronti. Fino a due settimane fa, erano circa trenta le associazioni e le organizzazioni che si sono mosse in difesa di Canfora, con oltre duecentocinquanta cittadini. Persino il quotidiano francese Libération ha lanciato un appello per il filologo, firmato da docenti della Sorbona, dell'università di Cambridge e del Collège de France.

Canfora, 81 anni, è considerato un intellettuale tra i più accreditati. In questa vicenda, rispetto alle frasi incriminate, c'è chi giudica le sue parole espressioni di libertà di pensiero, mentre per altri si tratta di diffamazione. Ora, ora sarà il tribunale ad esprimersi.
view post Posted: 16/4/2024, 12:42 Animali per immagini - Nature

SEMBRANO PIANTE, INVECE...

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Nei fondali sottomarini delle isole Svalbard, a nord della Norvegia, un gruppo di ricercatori ha scoperto una vera e propria foresta di animali sottomarini: ecosistemi che si formano a decine di metri sotto la superficie del mare, a partire dal punto in cui la luce solare non riesce più a penetrare. Da lì in poi le piante non possono più sopravvivere e nelle profondità oceaniche restano solo gli animali. Anche se a prima vista non si direbbe: coralli, spugne e altri organismi pluricellulari si adagiano sul fondale muovendosi appena con la corrente, più simili a esseri vegetali. È il regno degli "idrozoi", specie marine - tra cui rientrano polipetti e meduse, coralli molli e attinie - dipendenti l'uno dall'altra per nutrimento e protezione, che proliferano formando delle foreste simili a quelle che si trovano in superficie, ma ancora più intricate e inaccessibili.

Nonostante le temperature glaciali dell'acqua (-40° e più), organismi animali invertebrati come le attinie della foto sopra, anche noti come "anemoni d mare", proliferano in quelle profondità sottomarine... ed è affascinante ricordare che questi organismi dall'aspetto delicato e attraente nascondono abilmente un animo "pungente". Infatti, i loro tentacoli, che ondeggiano lievi nelle correnti marine, sono fortemente urticanti e servono per catturare piccoli pesci e animaletti invertebrati di cui si cibano, poiché sono anche molto voraci.
view post Posted: 14/4/2024, 14:00 Com'è che l'Iran è diventato nemico di Israele e protettore dei palestinesi - Politica estera

Il messaggio di Biden che frena Netanyahu:
«Hai avuto una vittoria, prendila»




Nel corso di una telefonata durante la notte scorsa con il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il presidente Joe Biden ha definito le intercettazioni di missili e droni «una vittoria» e ha spiegato che gli Stati Uniti non parteciperanno ad un'azione offensiva contro l'Iran, secondo fonti della Casa Bianca.

Biden e i suoi consiglieri sono preoccupati che una risposta israeliana possa portare ad una guerra regionale, con conseguenze catastrofiche, aggiungono le fonti. «Hai avuto una vittoria, prendila», avrebbe detto Biden a Netanyahu, il quale avrebbe risposto di aver capito. Adesso la palla è nel campo del premier israeliano, che ha scritto sul social X: «Abbiamo intercettato, abbiamo contenuto l'attacco, insieme vinceremo», un messaggio che non chiarisce se la questione sia chiusa dal suo punto di vista. Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, ha parlato con il suo omologo Yoav Gallant, chiedendogli - prima di una eventuale risposta militare - di notificarlo agli Stati Uniti.

«L’Iran e le sue milizie per procura in Yemen, Siria e Iran hanno lanciato un attacco senza precedenti contro strutture militari in Israele – si legge in una nota del presidente degli Stati Uniti diffusa dopo la telefonata con Netanyahu - Condanno questi attacchi nel modo più duro possibile.... Abbiamo aiutato Israele ad abbattere quasi tutti i droni e i missili in arrivo. Ho parlato con il primo ministro Netanyahu per riaffermare l'impegno ferreo dell'America per la sicurezza di Israele. Gli ho detto che Israele ha dimostrato una straordinaria capacità di difendersi e sconfiggere attacchi senza precedenti, mandando un messaggio chiaro ai suoi nemici che non possono minacciare in modo efficace la sicurezza di Israele».

Oggi Biden riunirà i leader del G7 per coordinare una risposta diplomatica all'Iran. I suoi ministri e consiglieri contatteranno gli omologhi nella regione, aggiunge il presidente americano. «E anche se non abbiamo visto attacchi contro le nostre forze e strutture oggi, restiamo vigili su tutte le minacce e non esiteremo a compiere le azioni necessarie per proteggere la nostra gente».


Corriere.it, 14 aprile 2024

Edited by Monnalisa - 15/4/2024, 00:43
view post Posted: 14/4/2024, 13:43 Com'è che l'Iran è diventato nemico di Israele e protettore dei palestinesi - Politica estera
E torniamo ai giorni nostri...


Nella strade di Teheran, una scritta in persiano ed ebraico recita: "Il vostri prossimo errore sarà la fine del vostro Stato fasullo"



La notte scorsa, dunque, l'Iran ha mosso contro Israele un attacco senza precedenti, con centinaia di droni e missili. Teheran lo ha definito «una risposta all'azione israeliana su Damasco (vedi post precedente)». L'ambasciatore iraniano presso le Nazioni Unite, Amir Saed, ha definito «l'attacco un atto di autodifesa». Ed ha poi aggiunto: «In qualità di membro responsabile delle Nazioni Unite, la Repubblica islamica dell'Iran si impegna a perseguire gli scopi e i principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite e dal diritto internazionale, e ribadisce la sua posizione coerente secondo cui non cerca un'escalation o un conflitto nella regione». Ha quindi concluso affermando che «la questione per l'Iran è chiusa. Ma se Israele farà altri errori, risponderemo con maggiore durezza». L'attacco contro Israele ha suscitato l'esultanza delle Guardie rivoluzionarie: «L'Iran ha punito Israele!».

Dal canto suo, Israele ha fatto sapere che, insieme agli alleati – Usa, Regno Unito e Francia, nonché con il supporto della Giordania – ha abbattuto il 99 per cento delle armi usate da Teheran. Sono stati registrati danni minori in una base aerea militare nel sud del Paese e due bambine, una di 7 e l'altra di 10 anni, sono rimaste gravemente ferite dalle schegge di un drone. Altre 31 persone sarebbero rimaste ferite in modo lieve in Israele, mentre si stavano dirigendo verso i rifugi dopo il suono delle sirene. Lo riferisce Nbc News. Netanyahu ha subito dichiarato: «Risponderemo», anche se fonti ufficiali israeliane fanno sapere nessuna decisione, per il momento, è stata ancora presa; un'eventuale riposta sarà discussa nel Gabinetto di guerra previsto per le 15.00 (le 14 in Italia).

Il punto generale è che il conflitto possa allargarsi in tutto il Medio Oriente, coinvolgendo non solo l'Iran ma anche i suoi alleati: Libano, Siria, Iraq e Yemen. Il gabinetto di guerra israeliano ha promesso una forte reazione militare, ma Biden invita Israele alla prudenza e promette: «Il G7 darà forte risposta diplomatica». Questa sera, riunione di emergenza del Consiglio di sicurezza dell'Onu. Ora il mondo spera che il Medio Oriente non si trasformi nel teatro di una catastrofica guerra regionale dopo quella, drammatica, a Gaza.

Edited by Monnalisa - 14/4/2024, 15:14
view post Posted: 14/4/2024, 13:03 Com'è che l'Iran è diventato nemico di Israele e protettore dei palestinesi - Politica estera
La storia è lunga e la racconta molto bene Federico Rampini in un lungo articolo del Corriere di oggi. Cercherò di farne un riassunto... utile per chi, come me, ignora molte cose delle vicende passate e dei rapporti fra questi due Paesi.

L'attacco che l'Iran ha lanciato su Israele nella notte tra sabato 13 e domenica 14 aprile è scattato dopo che Israele ha ucciso, in un raid a Damasco (in Siria) Mohamed Reza Zahedi, alto rappresentante delle Guardie rivoluzionarie. Ma da quando l'Iran è diventato il principale protettore dei palestinesi e da quando è diventato antiamericano? La risposta è importante per capire che il Medio Oriente alcuni decenni fa. Agli albori del conflitto israelo-palestinese, per esempio, l'Egitto era il Paese più antiamericano di quell'area; Iran e Arabia Saudita andavano d'accordo tra loro e si contendevano i favori degli Stati Uniti; i palestinesi avevano una leadership laica, refrattaria all'islamismo.

Gli antefatti degli schieramenti odierni risalgono alla fine degli anni Settanta, un periodo segnato da guerre e rivoluzioni. Fino al 1979 in Iran regnava lo Scià di Persia, Reza Pahlavi, che aveva voluto una serie di riforme modernizzatrici: per esempio, i diritti delle donne iraniane e il loro livello d'istruzione erano fra i più avanzati di tutto il Medio Oriente. In sostanza, lo Scià adottava una politica di continuità con il regno di suo padre, il quale aveva addirittura tentato, negli anni Trenta, di vietare il velo integrale. Della tradizione persiana faceva parte anche la tolleranza verso la comunità ebraica locale, la più antica di tutte le diaspore in Medio Oriente. La sua origine si fa risalire alla regina Esther, sposa di un re persiano della dinastia Achemenida fondata da Ciro il Grande nel VI secolo a.C. La storia di questa regina, in ebraico Hadassah, è raccontata nel Libro di Ester, parte della Bibbia ebraica: grazie al suo consorte persiano gli ebrei di quella diaspora vennero salvati dallo sterminio, un evento celebrato nella Festa di Purim. Realtà storica o leggenda, poco importa: la figura di Esther sta a ricordare quanto antica e integrata fosse la comunità di ebrei in Persia.

Lo Scià anche in questo si era mostrato fedele all'eredità storica. All'origine della partizione della Palestina nel 1948 ammonì che avrebbe portato a un conflitto per molte generazioni, però nel 1950 Reza Pahlavi riconobbe lo Stato d'Israele, con cui mantenne rapporti eccellenti fino alla fine del suo regno. Di fatto, Iran e Israele erano alleati, uniti non solo dall'appartenenza al campo occidentale durante la guerra fredda, ma anche da obiettivi interessi comuni: le forze anti-israeliane e l'opposizione che voleva rovesciare lo Scià spesso cooperavano tra loro, in particolare nei campi di addestramento terroristici del Libano. Anche l'Arabia Saudita, pur solidarizzando con il popolo palestinese, si riconosceva nel sistema di alleanze anti-Urss e anticomuniste, imperniate sulla leadership dell'America.

Sul fronte opposto c'era l'Egitto di Nasser, Paese nordafricano ma legato al Medio Oriente dal punto di vista geopolitico; era il più importante degli alleati dell'Unione Sovietica in quest’area e il più importante sostenitore della causa palestinese. L'antica autorevolezza religiosa dell'Egitto tra i popoli islamici – legata al ruolo dell'università Al-Azhar del Cairo – era finita in secondo piano rispetto a un'altra leadership, quella laica, secolare e politica di Nasser. L'ex colonnello venuto al potere con un colpo di Stato era diventato il principale fautore del nazionalismo panarabo, a cui aggiungeva un'ideologia socialista. Il prestigio di Nasser nel mondo arabo era stato esaltato dalle vicende del 1956, quando l'Egitto aveva tenuto testa all'aggressione congiunta di Inghilterra Francia e Israele. Poi, però, aveva ricevuto un colpo fatale nel 1967, con la sconfitta contro Israele nella Guerra dei Sei giorni. Nasser non si era più ripreso, fino alla morte avvenuta nel 1970. L’anno prima della sua morte, nel 1969, i palestinesi riuniti nell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si erano dati un nuovo leader: Yasser Arafat, che era tutto, fuorché islamista. Arafat era più vicino al Dna ideologico di un Nasser, che a quello dei Fratelli musulmani.

Per i Fratelli musulmani – e per tutte le organizzazioni che ne sono derivate, inclusa Hamas – i popoli arabi non dovrebbero essere divisi per nazionalità, bensì riuniti nella Ummah, la comunità dell'Islam, idealmente sotto un Grande Califfato o Stato islamico. Arafat invece era un nazionalista. In cerca di nuovi protettori, aveva subito un rovescio terribile in Giordania: nel 1970 il re Hussein aveva ordinato una repressione cruenta contro i commandos dell'OLP sul suo territorio (il "Settembre nero" di Amman). Un altro colpo tremendo all'OLP sarebbe venuto sette anni dopo: la visita del presidente egiziano Anwar Sadat a Gerusalemme e il suo discorso alla Knesset, il Parlamento israeliano. Era il preludio ai negoziati di pace fra Egitto e Israele sotto la mediazione del presidente americano Jimmy Carter. Sadat era anche il protagonista di un cambio di alleanze clamoroso: traghettava l'Egitto dal blocco sovietico a quello americano.

È in quel 1977 che Arafat, sentendosi tradito da Sadat e isolato, inaugura una nuova stagione di alleanze, le cui conseguenze vengono pagate tuttora, anzitutto dallo stesso popolo palestinese. In quel 1977, Arafat coglie l'occasione di un grave lutto familiare per rendere omaggio ad una figura allora poco conosciuta in Occidente, ma ben nota in Iran: l'ayatollah Khomeini. Quando muore all’età di 47 anni suo figlio Mostafa Khomeini, l’ayatollah vive in esilio in Iraq. Fino a quel momento è solo uno fra tanti leader dell'opposizione allo Scià, anzi delle opposizioni al plurale: contro il regime monarchico si battono diverse correnti islamiche, nonché organizzazioni laiche di tipo socialista, comunista, o democratiche. In Iraq, Khomeini riceve un messaggio di condoglianze da Arafat, che segna l'inizio di una relazione destinata a cambiare la fisionomia politica del Medio Oriente. Il legame tra rivoluzionari palestinesi e iraniani fino a quel momento era stato dominato da militanti della sinistra. Quando nasce un contatto formale tra l'OLP e l'ala fondamentalista islamica della rivoluzione iraniana incarnata dall'ayatollah, si rafforzano l'addestramento e il sostegno in vista del rovesciamento dello Scià. Khomeini sfrutta fino in fondo questa relazione: impadronendosi della causa palestinese, sconvolgerà il paesaggio politico del Libano e di tutto il Medio Oriente.

Nel febbraio 1979 l'ultimo premier dello Scià, Shapour Bakhtiar, è costretto a fuggire da Teheran. Quel giorno la rivoluzione trionfa in Iran e Khomeini si appresta a imprimervi la propria egemonia. Arafat si considera l'altro vincitore di quell'evento: è sicuro di aver scommesso sull'alleato giusto. Con un bel po' di arroganza, è persino convinto che la rivoluzione iraniana sia merito suo: sono i palestinesi dell'OLP ad avere addestrato nelle loro basi del Libano quelle milizie khomeiniste che hanno messo fine a 2.500 anni di monarchia persiana, anche se la dinastia dello Scià è ben più giovane (ha solo due generazioni di storia).

Il nuovo regime teocratico di Teheran, almeno all'inizio, sembra confortare questa narrazione. Il 17 febbraio 1979 Arafat è il primo leader straniero a visitare l'Iran rivoluzionario, alla guida di una delegazione dell'OLP dove figura un giovane Mahmmoud Abbas. Arafat raggiunge una Teheran ancora sconvolta da scontri tra fazioni, al termine di un avventuroso viaggio in aereo via Damasco. L'aeroporto di Teheran è assediato da iraniani che vorrebbero fuggire all'estero e gli americani stanno evacuando i loro connazionali su diversi aerei da trasporto militari Hercules C-130 della U.S. Air Force. Al suo atterraggio, Arafat non si trattiene: dal terminal dell'aeroporto di Teheran, si dichiara il vincitore alla pari con Khomeini: «La rivoluzione dell'Iran non appartiene solo agli iraniani, appartiene anche a noi. Ciò che voi avete realizzato è un terremoto. Il vostro eroismo ha scosso il mondo, Israele e l'America».

Il proclama di Arafat viene seguito in tutto il mondo arabo. Le sinistre socialiste e comuniste, ancora forti temporaneamente in Iran e in molti paesi arabi, celebrano una vittoria che considerano loro. In quella fase tanto euforica e caotica, quasi tutti sembrano sottovalutare le differenze profonde tra l'Iran sciita e il mondo arabo a maggioranza sunnita, o tra l'ideologia nazionalista e socialista dell'OLP e il fanatismo islamico di Khomeini. Nei cortei di piazza in diverse nazioni arabe appaiono striscioni con uno slogan che contiene un sinistro presagio: «Lo Scià è finito. Domani tocca a Sadat».

Il presidente egiziano, "colpevole" di aver firmato la pace con Israele, verrà assassinato due anni dopo (1981) in una congiura dei Fratelli musulmani. In effetti, proprio mentre Khomeini s'impone in Iran e Arafat si precipita da lui a condividere quella vittoria, le prime pagine dei giornali di tutto il mondo affiancano due eventi dal Medio Oriente: da una parte, la deposizione dello Scià; dall'altra, gli accordi di Camp David tra Egitto e Israele. Il canto di vittoria di Arafat all'inizio sembra confermato dai fatti: l'OLP ha perso un alleato importante come l'Egitto, ma ne ha guadagnato un altro dal peso geopolitico rilevante.

Subito dopo l'arrivo di Arafat a Teheran, il nuovo regime taglia i rapporti con Israele. I diplomatici israeliani sono evacuati. Inizia un ponte aereo per portare in salvo migliaia di ebrei persiani, l'epoca della tolleranza per loro si chiude di colpo. Ma il successo dell'OLP è di breve durata. Arafat, alla pari di tutte le sinistre nazionaliste del mondo arabo (e di tanti intellettuali occidentali) non capisce che gli esordi di Khomeini non promettono nulla di buono per lui e per i suoi compagni di strada. Subito dopo la vittoria di Khomeini, il clero al comando del Paese instaura i suoi Tribunali della Rivoluzione. Le condanne a morte – per impiccagione o lapidazione – vengono messe in atto a gran velocità: centinaia di esecuzioni colpiscono ufficialmente i membri della famiglia reale, i collaboratori dello Scià, i trafficanti di droga. In realtà, tra i bersagli ci sono soprattutto i separatisti delle minoranze etniche (Kurdistan, Gonbad, Khuzestan) e i leader della sinistra marxista. Questi ultimi si erano illusi di manipolare Khomeini e orientarlo verso una rivoluzione socialista, ma si sbagliavano.

Khomeini non perde tempo a ribaltare la situazione anche con l'OLP. Appena conquistato il potere, l'ayatollah comincia a far pressione su Arafat perché definisca la sua organizzazione come un movimento di «resistenza islamica»: un'etichetta impossibile vista la storia e l'ideologia dell'OLP, la cui base militante non era affatto religiosa. Già verso la fine del 1979 l'alleanza fra i due Paesi si stava logorando. I capi e militanti palestinesi accorsi a Teheran, osservando da vicino l'instaurazione di una dittatura religiosa, cominciarono a definire gli iraniani come dei «matti da legare». Gli ayatollah a loro volta erano disgustati da quei palestinesi che non pregavano, bevevano alcol, andavano a donne. La divaricazione era cominciata presto. Nel conflitto fra Khomeini e Arafat alla fine i vincitori sarebbero stati gli ayatollah. E, tra gli sconfitti, c'era il popolo palestinese.

Khomeini, appropriandosi della causa palestinese e rompendo con Israele, fece un investimento politico: voleva diventare il difensore di una causa popolare in tutto il mondo arabo, per far dimenticare alla maggioranza sunnita di quel mondo la propria appartenenza allo scisma sciita e preparare così una lunga guerra per l'egemonia sull’Islam. Se Arafat non voleva entrare a far parte di una resistenza islamica, ora l'Iran aveva i mezzi per crearsene una, organizzando quei palestinesi e quei libanesi attratti dal fondamentalismo di Khomeini. Dentro l'opposizione palestinese ad Arafat ci sarebbero stati dei fondamentalisti islamici, come Hamas, e avrebbero cercato sostegno in Iran.

Da quell'incontro-scontro Khomeini-Arafat, da quell'alleanza breve e fondata sugli equivoci, ha origine nel 1979 una nuova strategia per costruire l'impero persiano del nostro tempo, irradiando ideologia jihadista e armi a milizie in tutto il Medio Oriente. In questo bilancio di mezzo secolo il popolo palestinese esce sconfitto perché il suo scivolamento nell'orbita della teocrazia sciita ha accelerato la presa di distanza di tutto il mondo sunnita moderato.

Dopo l'Egitto e la Giordania, anche l'Arabia Saudita e gli Emirati (essendo nel mirino dell’espansionismo iraniano) hanno preso le distanze dai palestinesi. In quanto all'erede dell'OLP di Arafat, l'Autorità palestinese, la sua forza originaria è stata distrutta insieme alla sua legittimità popolare, rovinata dalla corruzione e dall'incapacità dei suoi leader, come Mahmoud Abbas, e sotto gli attacchi costanti di Hamas e Hezbollah sostenuti dall'Iran. In questo gioco al massacro si è poi infilata la destra israeliana: da Ariel Sharon a Benjamin Netanyahu ha sempre assecondato l'asse Hamas-Iran a Gaza, per indebolire l'Autorità palestinese, dividere il fronte avversario, togliere credibilità alla prospettiva di due Stati.


E bravo Rampini... :clap1.gif:
Fonte

Edited by Monnalisa - 14/4/2024, 15:13
view post Posted: 12/4/2024, 01:22 Il calvario di Aleksej Navalny - Politica estera

Navalny, l'ultima sfida a Putin. Annunciata la pubblicazione delle sue memorie

di Anna Lombardi

L'oppositore russo morto lo scorso febbraio ha lasciato le bozze di un libro autobiografico. Si intitolerà "Patriot" e uscirà negli Stati Uniti in ottobre


Aleksej Navalny non smette di sfidare il regime di Vladimir Putin nemmeno dalla tomba. L'oppositore russo morto lo scorso febbraio ad appena 47 anni nella colonia carceraria IK-3 dove stava scontando una pena di 19 anni, ha infatti lasciato un libro di memorie alle sue spalle. Un memoir a cui aveva iniziato a lavorare durante la convalescenza dall'avvelenamento del 2020, quando gli misero un agente nervino nelle mutande, dove racconta la propria storia e la propria battaglia in prima persona: la giovinezza, l'attivismo, il matrimonio, la famiglia, l'impegno per la causa della democrazia e della libertà in Russia, minaccia costante per la superpotenza determinata a metterlo a tacere. Il libro sarà intitolato "Patriot" e verrà pubblicato a ottobre negli Stati Uniti edito da Knopf. Poi, a seguire, in altri Paesi, tradotto in 11 lingue.

«Rappresenta davvero la sua ultima sfida al regime», ha affermato la vedova Yulia Navalnaya, in una dichiarazione dove si auspica anche che il tomo avrà un effetto galvanizzante per i suoi seguaci. «Questo libro non racconta solo la vita di Aleksej, ma testimonia il suo incrollabile impegno nella lotta contro la dittatura, una lotta per la quale ha dato tutto, compresa la vita», ha detto al New York Times, che ieri riportava la notizia. «Attraverso le sue pagine, i lettori conosceranno l'uomo che io ho amato profondamente: un uomo di grande integrità e incrollabile coraggio. Condividere la sua storia non solo onorerà la sua memoria, ma ispirerà anche gli altri a difendere ciò che è giusto e a non perdere mai di vista i valori che contano veramente. Lo considero il suo vero testamento morale».

In un comunicato stampa, Knopf ha affermato che il libro di memorie «esprime la totale convinzione di Navalny che al cambiamento non si può resistere. E che presto o tardi arriverà». A editare il manoscritto è proprio Yulia. Sarà disponibile anche un'edizione in lingua russa, anche se difficilmente in quel Paese potrà trovare un editore. L'editore inglese Vintage, che lo pubblicherà in Gran Bretagna in contemporanea con l'edizione americana, lo ha a sua volta definito "La sua lettera al mondo".


Repubblica.it, 11 aprile 2024
view post Posted: 11/4/2024, 15:49 Lo storico Luciano Canfora, denunciato da Giorgia Meloni - Politica italiana

Un appello internazionale per Luciano Canfora

di Corrado Augias

Lanciato dal quotidiano francese "Libération" e firmato da studiosi italiani e stranieri,
è a difesa del grecista che andrà a processo per aver definito la presidente del Consiglio «neonazista nell'animo»




Il quotidiano francese Libération ha lanciato un appello in favore del filologo classico italiano Luciano Canfora nei confronti del quale si aprirà a Bari, il prossimo 16 aprile, un processo che non ha precedenti in Europa dopo il 1945. Canfora, uno dei più illustri cattedratici italiani, è stato trascinato in giudizio dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

L’episodio contestato risale a due anni fa: durante una conferenza in una scuola superiore, il professor Canfora definì l'attuale premier «neonazista nell'animo». Il filologo intendeva alludere al fatto che il suo partito, Fratelli d'Italia, ha le sue origini storiche nella Repubblica di Salò, quasi un protettorato nazista che dall'8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 impose in Italia, in particolare nel Nord, un regime di terrore poi passato alla storia con la denominazione di nazifascismo.

L'appello del quotidiano francese ricorda che il partito Fratelli d'Italia continua a esibire nel suo simbolo la fiamma tricolore del Movimento sociale Italiano il cui fondatore, Giorgio Almirante, ancora nel 1987 dichiarava che «il traguardo» del suo partito era il fascismo. Anche di recente Meloni ha celebrato la memoria di Almirante, da lei definito «un politico e un patriota che non dimenticheremo mai». Nel suo libro autobiografico "Io sono Giorgia" ha riconosciuto l'eredità di colui che tra l'altro fu editore della rivista razzista "La difesa della razza", anche se ha poi aggiunto di non coltivare il culto del fascismo. La sua posizione politica sull'argomento è in definitiva quella di un acrobatico equilibrio tra la necessità di non perdere consensi nell'ala destra, compresa quella estrema, dei suoi sostenitori in vista delle imminenti elezioni europee, senza però negarsi una certa pragmaticità in vista di futuri traguardi post-elettorali.

Personalmente non condivido tutte le posizioni politiche del professor Canfora, che tuttavia si trova oggi in una situazione indegna di una democrazia decente e, sul piano generale, pericolosa per la libertà di opinione, come dimostrano le numerose querele citate dall'appello. Vengono colpiti giornali, media di investigazione, una professoressa di filosofia della Sapienza, il rettore dell'università per stranieri di Siena, non viene risparmiato nemmeno un vignettista. Vale per Canfora il famoso aforisma attribuito a Voltaire: non condivido interamente il tuo pensiero, ma mi batterò perché tu possa continuare a manifestarlo. Tanto più questo vale in una situazione come la presente. Come ha osservato Federico Fubini sul Corriere della Sera: «Uno dei successi di Giorgia Meloni è essere riuscita a far diventare maleducato chiederle cosa pensa del fascismo».

Un capo di governo non dovrebbe mai portare in giudizio un cittadino, si tratti di un quidam de populo o di un famoso filologo, in particolare quando si tratta di opinioni. Troppo grande la sproporzione dei mezzi a disposizione, la forza che può essere esercitata. È lecito credere che la presidente Meloni si spoglierà prima o poi della pesante eredità postfascista nella quale si è formata. Ritirarsi nobilmente da questo giudizio certamente dettato da un moto di stizza potrebbe cominciare a dimostrarlo.

Tra i firmatari dell'appello figurano Maurizio Bettini, Anna Foa, Adriano Prosperi, Aldo Schiavone. Undici professori della Sorbona, cinque di Cambridge tra i quali il Regius Professor di greco, che diffonderà tra breve una traduzione dell'appello in inglese; tre del Collège de France, tra i quali Jean-Luc Fournet, titolare di papirologia. Interessante notare che il prof Fournet, al contrario di Canfora, propende per l'autenticità del papiro di Artemidoro! La sua firma ha dunque un doppio valore perché scavalca i dissidi accademici. C’è quasi tutta la grande antichistica francese, il che non stupisce, conoscendo la grande passione di Luciano Canfora per la Francia. Tra gli americani, figura il noto studioso del Rinascimento Anthony Grafton. Le adesioni sono al momento più di centocinquanta.

Chi vuole può aderire, scrivendo a [email protected].


Repubblica.it, 11 aprile 2024


PS. Io ho appena aderito! :auskosten.gif:
view post Posted: 11/4/2024, 15:26 Ritrovamenti - Vernissage

Il "Ritratto della signorina Lieser": un mistero nel mistero



La storia di questo bellissimo ritratto - una delle ultime opere di Gustav Klimt, perduto e poi miracolosamente ritrovato - l'ho già raccontata nel post sopra. In breve, la donna del quadro è Margarethe Constance Lieser, che all'epoca del ritratto - siamo nel 1917 - ha 18 anni. Il ritratto viene commissionato dai genitori della ragazza, Adolf e Silvia Lieser, una famiglia di ebrei convertiti al cattolicesimo appartenente alla grande borghesia industriale durante l'impero austro-ungarico. Per 9 volte Margarethe si reca nello studio viennese di Klimt a posare e il risultato è il bel dipinto visibile sopra: un quadro dai colori vivaci in perfetto stile Art Nouveau, che rimane però incompiuto a causa della morte del pittore (all'inizio del 1918), ma che viene comunque consegnato alla famiglia Lieser dagli eredi di Klimt. Poi, scompare nel nulla. L'unica traccia del quadro è una foto uin bianco e nero, ma per decenni non si trova e viene considerato perduto... fino agli anni Sessanta del Novecento, quando ricompare brevemente a Vienna per poi scomsparire di nuovo.

Il figlio di Margarethe, il finanziere William de Gelsey, non si rassegna alla sparizione: cerca disperatamente di rintracciare il ritratto di sua madre, soprattutto a partire dagli Anni '80. E non ha mai dubbi che la "signorina Lieser" sia sua madre: lo sa dai racconti di Margarethe stessa, che muore a Londra, la città dove vive anche lui, negli Anni Sessanta. E ha persino trovato un nomignolo per quella tela: la chiama il "Ritratto con l'artiglio", per la nervosa posa della mano della madre. Nel 2021, William de Gelsey muore all'età di 99 anni. Nel testamento, il finanziere lascia una strana nota. Non ha figli e chiede agli eredi - il lascito viene affidato ad un trust - di non desistere dalla ricerca; in sostanza, di recuperarlo. Prima di morire, sostiene spesso che «quando non ci sarò più, il quadro salterà fuori».

Infatti, a fine gennaio 2024 il "Ritratto della signorina Lieser" viene ritrovato da una piccola casa d'aste austriaca: imKinsky. E' un ritrovamento sensazionale, che fa il giro del mondo, uno di quei colpi di fortuna che capitano una volta in un secolo. Questo bellissimo quadro andrà all'asta il 24 aprile: si parte da un valore tra i 30 e i 50 milioni di euro, ma gli esperti stimano persino che potrebbe essere ceduto per 70 milioni di euro o più. Il punto, però - giusto per parafrasare Manzoni - è che questo quadro non s'ha da vendere... almeno, finché l'origine e l'identità non ne siano definitivamente chiarite. Perché, oltre all'incredibile ritrovamento, la casa d'aste annuncia anche una novità che sconvolge gli storici. E che sta trasformando l'intera vicenda in un giallo. La donna ritratta nel quadro non sarebbe Margherete, ma Helene, sua cugina. Perché il quadro non sarebbe stato commissionato da Silvia Lieser, bensì da sua cognata Henriette Lieser, detta Lilly, deportata nel 1942 dai nazisti e morta a Riga, forse fucilata dai nazisti, oppure assassinata l'anno successivo ad Auschwitz.

Le incongruenze di questo improvviso cambio di identità della "signorina" di Klimt sono tante. L'ignoto che ha consegnato il ritratto alla casa d'aste imKinsky vuole rimanere tale, il che non è insolito. Ma già nella prima telefonata con il proprietario della casa d'aste, l'attuale proprietario precisa già che ci sono «problemi che riguardano la provenienza del dipintoi». La casa d'aste lo ha ammesso a gennaio, durante la conferenza stampa. E sul sito di imKinsky non c'è alcun accenno a un team di ricerca per rintracciare l'origine della tela, come avviene di solito per le grandi case d'aste che vendono quadri importanti.

Qualcosa mi dice che sentiremo ancora parlare di questo dipinto...
view post Posted: 5/4/2024, 21:30 Che libro state leggendo? - Infinito
Dopo la lettura di due libri di Simona Lo Iacono, "Virdimura" e "Le streghe di Lenzevacche", ho deciso di prendermi una pausa e sono passata a tutt'altro genere. Ora sto leggendo il libro di un autore francese, questo:

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"Ninfee nere", di Michel Bussi - Edizioni e/o) è un giallo ambientato a Giverny, in Normandia, il borgo dove visse e lavorò Monet. Proprio la vita e l'opera del grande pittore sono al centro della vicenda del romanzo, che inizia con la morte di un ricco collezionista d'arte, su cui dovrà indagare l'ispettore Sérénac. L'ho scelto proprio perché amo la pittura, senza conoscere nulla di questo autore, che non mi ha affatto deluso. Ma ecco la sinossi...

A Giverny, in Normandia, il piccolo villaggio dove ha vissuto e dipinto i suoi più famosi capolavori il grande pittore impressionista Claude Monet, una serie di omicidi rompe la calma della località turistica. La vicenda inizia con l'omicidio di Jérôme Morval, un uomo ricco e appassionato tanto d'arte quanto di donne, che viene trovato morto, pugnalato, in un ruscello. In tasca ha una cartolina di un famoso quadro: le "Ninfee Nere", che Monet avrebbe dipinto prima di morire.
L’indagine del giovane e affascinante ispettore Sérénac, che gira con moto e giubbotto di pelle, ci conduce a contatto con tre donne. La prima, Fanette, ha 11 anni ed è appassionata di pittura. La seconda, Stéphanie, è la seducente maestra del villaggio, mentre la terza è una vecchia acida che spia i segreti dei suoi concittadini da una torre. Tutte e tre condividono un segreto e una di loro è l'omicida.
Al centro della storia, la passione devastante attorno alla quale girano le tele rubate o perse di Monet. Rubate o perse, come le illusioni quando passato e presente si confondono e giovinezza e morte sfidano il tempo. Durante l'indagine sfumano i confini tra realtà e illusione e, soprattutto, tra passato e presente. Il piccolo borgo di Givenry finisce per rivelarsi una sorta di microcosmo appiccicoso, infido, da cui nessuno può uscire senza perdere qualcosa. L'intreccio è costruito in modo magistrale e la fine è sorprendente, totalmente imprevedibile. Ogni personaggio è un vero enigma.

Il libro, uscito in Italia nel 2016, è piuttosto lunghetto per essere un giallo (400 pagine), ma si legge che è una meraviglia. Infatti, alla sua uscita in Francia (nel 2011) ha avuto un successo enorme ed è stato tradotto in ben 30 lingue, ha vinto un sacco di premi e dal libro è stata tratta una graphic novel. Anche il suo autore, quanto a notorietà, non scherza: Michel Bussi è uno degli scrittori francesi di gialli più venduti oltralpe. I suoi libri hanno scalato le classifiche mondiali, tra cui anche quella del quotidiano inglese The Times. Le sue trame sono congegni diabolici in cui il lettore è invitato a perdersi e ritrovarsi tra miraggi, prospettive ingannevoli e giochi di prestigio.

Michel Bussi. Nato a Louviers, nell'Alta Normandia (dove ha ambientato molti dei suoi libri), è il secondo giallista francese quanto a copie vendute. Insegnante di geografia politica all'Università di Rouen, è anche direttore del Centre national de la recherche scientifique. A partire dal suo esordio nella narrativa, nel 2006, ha scritto una ventina di romanzi tra gialli e polizieschi, quasi tutti tradotti in italiano; tra questi: Usciti di Senna (2008), La Follia Mazzarino (2009), Ninfee nere (2011), Un aereo senza di lei (2012), Non lasciare la mia mano (2013), Mai dimenticare (2014), La doppia madre (2015), Tempo assassino (2016), Il quaderno rosso (2017), Forse ho sognato troppo (2019), La mia bottiglia per l'oceano (2020), La caduta del sole di ferro (2020), I due castelli (2021), Nulla ti cancella (2021), Tutto ciò che è sulla Terra morirà (2021), Tre vite una settimana (2023).

Edited by Monnalisa - 6/4/2024, 14:04
view post Posted: 5/4/2024, 17:51 Animali per immagini - Nature

SEMBRA UN FIORE. INVECE...


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Questa immagine mostra un insetto chre assomiglia ad un fiore. E' la mantide orchidea: un insetto, secondo Wikipedia, molto raro e caratterizzato da una colorazione brillante, ma con una struttura ideale per la mimetizzazione: il corpo infatti ha l'aspetto di alcune parti del fiore dell'orchidea e le quattro zampe assomigliano a petali del fiore. La coppia frontale dentata viene usata, come in altre mantidi, per afferrare la preda: farfalle e falene la scambiano per un fiore e lei ne approfitta per mangiarle. Anche la mantide orchidea, come quella religiosa, può essere protagonista di atti di cannibalismo nei confronti del maschio sia al termine dell'atto riproduttivo sia per fame (la femmina adulta normalmente raggiunge dimensioni che sono il doppio del maschio).
view post Posted: 5/4/2024, 17:35 Silvio, santo subito - Politica italiana
Dopo l'articolo di Massimo Giannini che aprre questo topic, ho postato due altri articoli (vecchi, rispettivamente, di un anno e di due anni) per ricordare solo una piccola parte delle numerose nefandezze compiute da "San Silvio" durante la sua non breve vita. Alla luce di queste notizie, appare quantomeno inopportuna la lettera aperta che la figlia del Cavaliere, Marina Berlusconi, haa scritto a Repubblica in risposta all'articolo del giornalista... definendo "ossessione" la semplice verità raccontata soprattutto a beneficio di coloro che oggi tendono a dimenticare chi era Berlusconi e cosa ha fatto.


Marina Berlusconi: «Altro che beatificazione, contro mio padre c'è un'ossessione»[center]

La figlia del fondatore di Forza Italia replica a Massimo Giannini, che nella sua rubrica sul Venerdì aveva sottolineato le amnesie sul lascito politico del Cavaliere



Silvio Berlusconi con la figlia Marina


Egregio Direttore,

capisco bene che quando qualcuno ha una ossessione fa molta fatica a liberarsene. Ad esempio, leggo che Massimo Giannini, nella sua rubrica sul Venerdì, continua ad accanirsi contro Silvio Berlusconi anche ora che non c'è più. Anzi, ricorrendo a toni ironici davvero di pessimo gusto, parla di una sua presunta beatificazione. E tutto questo, come è tipico del pensiero ossessivo, senza nulla di nuovo, ma solo con una meccanica ripetizione di cose già dette e ridette, completamente disancorate dalla realtà dei fatti.

Riecco quindi Mangano e la mafia, ma nemmeno una parola sul fatto che trent'anni d'inchieste su mio padre sono finite tutte in nulla, tutte archiviate su istanza delle stesse procure che le avevano aperte. E ovviamente guardandosi bene dal ricordare che i governi Berlusconi, contro la criminalità organizzata, hanno promulgato leggi e ottenuto risultati che nessun altro governo italiano può vantare.

Riecco il conflitto di interessi, senza menzionare che mio padre abbandonò tutti gli incarichi aziendali il giorno stesso in cui scese in campo. E senza ricordare che il gruppo che ha fondato dà lavoro a migliaia di persone ed è oggi protagonista di una crescita internazionale che porterà alla creazione di uno dei pochi giganti paneuropei con la testa in Italia.

Riecco l'amicizia con Putin. Ma senza ricordare che quel legame aveva come obiettivo l'allargamento dell’Occidente e della democrazia - l'accordo di Pratica di Mare andava proprio in questa direzione. E senza ricordare che in quegli anni erano tanti i leader occidentali a dialogare con Putin, penso a Romano Prodi o ad Angela Merkel, solo per citarne due.

Riecco il tendone di Gheddafi. E ovviamente nemmeno una parola sull'Accordo di Bengasi, che non aveva precedenti nella storia delle relazioni del nostro Paese con l'Africa. Lasciamo poi stare i brillanti risultati che derivarono dall'intervento militare in Libia voluto dalla Francia, cui mio padre tentò purtroppo invano di opporsi: le primavere arabe, che nella realtà di "primaverile" hanno avuto ben poco.

L’ex direttore della Stampa cita Einstein: «la memoria è l'intelligenza degli idioti». Mi domando a quale categoria dell'intelletto vada iscritto il pensiero ossessivo… Soprattutto quando quel pensiero ha nutrito e garantito carriere professionali che altrimenti – forse – senza un nemico contro cui scagliarsi quotidianamente e ciecamente, non sarebbero nemmeno esistite.

Marina Berlusconi


La Repubblica, 5 aprille 2024

Vabbè che è la figlia e non può che difenderlo, ma questa donna ha non fette, bensì chili di prosciutto sugli occhi! :rolleyes.gif:
view post Posted: 5/4/2024, 17:12 Silvio, santo subito - Politica italiana

Silvio Berlusconi, Vladimir Putin e quegli scheletri nel lettone

Per il leader di Forza Italia non deve essere stato semplice attraversare tre mesi di guerra in Ucraina simulando distanza nei confronti dell'uomo
che lanciava palle al cagnolino Dudù e che gli aveva testimoniato fraterna amicizia con un celeberrimo regalo


di Stefano Cappellini

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Silvio Berlusconi e Vladimir Putin


Non dev'essere stato semplice per Silvio Berlusconi attraversare tre mesi di guerra in Ucraina simulando distanza e persino un timido biasimo nei confronti dell'uomo che lanciava palle allo sgambettante cagnolino Dudù e che gli aveva testimoniato fraterna amicizia con il regalo del celeberrimo lettone, sistemato a Palazzo Grazioli e tanto caro al Cavaliere.

Sarà stato il favorevole clima "complessista", questa cavillosa e libresca caccia alle ragioni storico-politiche di Vladimir Putin, sarà che nella maggioranza di governo non c'è più nessuno nei partiti principali, salvo il Pd di Enrico Letta, a tenersi in scia alla linea di Mario Draghi, certo è che Berlusconi ha sganciato tutti i freni inibitori con una frase che al mondo nessun leader di partito che non fosse Russia Unita si era spinto a pronunciare: «L'Unione europea deve cercare di fare accogliere a Kiev le domande della Russia». La pace, per Berlusconi, è la resa dell'Ucraina e il suo disciplinato ritorno alla condizione di Stato satellite di Mosca.

Probabile che il leader di Forza Italia non sia l'unico a pensarla così ma, almeno a livello di dichiarazioni pubbliche, ha scavalcato tutti nonostante il poco credibile tentativo, in serata, di correggere la sua uscita. Siamo ben oltre i rovelli di Giuseppe Conte sulla differenza tra fornitura all'Ucraina di armi difensive ovvero offensive, e molto al di là del neo-pacifismo di Matteo Salvini, che tre mesi di invasione russa hanno improvvisamente trasformato in una parodistica reincarnazione di padre Ernesto Balducci. Ad accomunare tutti e tre c'è però lo smarcamento da un governo di cui pure sono azionisti e che, per mano del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ha appena consegnato all'Onu e alla comunità interazionale un piano di pace dai contenuti ben diversi.

Agli occhi del mondo l'Italia è un Paese nel quale il presidente del Consiglio esprime una posizione di totale sostegno all'Ucraina e propone un complesso negoziato alla pari, mentre i partiti che lo sostengono si dividono tra chi propone per Kiev la difesa passiva, chi il disarmo e chi, appunto, la resa incondizionata. Ci sarebbe, per sovrappiù, anche Beppe Grillo, che ha recentemente ospitato sul blog un intervento così violentemente anti-americano da permettere a Vito Petrocelli, il putiniano M5S ex presidente della commissione Esteri del Senato, di azzeccare la battuta: «Ma se Grillo la pensa come me, perché mi hanno cacciato?».

È vero che fin qui si è trattato solo di uno smarcamento a parole, in aula non c'è stato alcun riverbero di queste posizioni, resta il fatto che una larga maggioranza virtuale del Parlamento si muove in senso contrario o comunque diverso rispetto a Palazzo Chigi. Ed è lecito coltivare qualche dubbio sulla solidità strategica del fronte italiano pro Ucraina, dato che l'altro presunto pilastro è Fratelli d'Italia, formazione che ha condiviso gli aiuti a Kiev e condannato senza se l'invasione russa, ma contemporaneamente esulta insieme a Viktor Orbán e coltiva il sogno della rivincita di Donald Trump negli Usa, che in prospettiva avrebbe effetti facili da immaginare sul quadro internazionale e sui margini di manovra di Putin. Alle elezioni politiche manca meno di un anno e, con queste premesse, c'è da dubitare che l'Italia sia in grado di dare continuità alla sua linea ufficiale sul conflitto. Più facile immaginare che la scommessa di Mosca sul nostro Paese come anello debole della catena occidentale abbia buone chance di rivelarsi vincente. Di questo passo, è possibile che il ministro Lavrov decida in un futuro non troppo lontano di concedere un'altra intervista esclusiva alla nostra tv, e stavolta per ringraziarci.


Repubblica.it, 21 maggio 2022
view post Posted: 5/4/2024, 16:54 Silvio, santo subito - Politica italiana

UN PO' DI AMARCORD NON PUO' FARE CHE BENE A CHI HA LA "MEMORIA SELETTIVA", CUI ACCENNA GIANNINI NELL'ARTICOLO SOPRA...


I misteri e i silenzi di Berlusconi
Sui sospetti di rapporti con la mafia non volle mai rispondere ai giudici


L'incontro del 1974 con il boss Stefano Bontate, organizzato dal suo braccio destro Marcello Dell'Utri.
I soldi per la "protezione" accertati dalla Cassazione.
La nuova indagine di Firenze per concorso nelle stragi del 1993, l'accorata difesa dell'avvocato Ghedini.
Il biglietto di Falcone con il nome di Berlusconi




Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri


Nel 1974, ha confermato la Corte di Cassazione nel processo al suo braccio destro Marcello Dell'Utri, Silvio Berlusconi incontrò il capomafia più autorevole di Palermo, Stefano Bontate, per chiedergli protezione: era la stagione dei sequestri. Così, arrivò nella villa di Arcore lo stalliere boss Vittorio Mangano. Dell'Utri è stato condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa. E Berlusconi è stato ritenuto dalla Cassazione un imprenditore che all’epoca preferì rivolgersi alla mafia piuttosto che allo Stato. Ma perché un imprenditore importante come Berlusconi avrebbe scelto di farsi proteggere dalla mafia e non dalle forze dell'ordine? In aula, ha sempre preferito non raccontare nulla di tutta questa vicenda: anche al processo "Trattativa Stato-mafia", come al processo Dell'Utri, si è avvalso della facoltà di non rispondere. Mentre nelle convention pubbliche non ha smesso di lodare il suo amico Dell'Utri.

Dell'Utri imputato. Marcello Dell'Utri, l'ex segretario diventato uno dei fondatori di Forza Italia e poi senatore, avrebbe avuto frequentazioni con esponenti mafiosi dalla metà degli anni Settanta fino al 1992. Gli atti del processo di Palermo tratteggiano il ritratto di un «mediatore», così lo chiamano i giudici. Mediatore di un «accordo di reciproco interesse tra i boss mafiosi e l'imprenditore Silvio Berlusconi«». Ecco cosa è scritto nella sentenza della Cassazione: «Grazie all'opera di intermediazione svolta da Dell'Utri veniva raggiunto un accordo che prevedeva la corresponsione da parte di Silvio Berlusconi di rilevanti somme di denaro in cambio della protezione a lui accordata da parte di Cosa nostra palermitana». Protezione «sia sul versante personale che su quello economico». All'inizio degli anni Settanta, Berlusconi temeva di restare vittima di un rapimento, temeva anche per i suoi familiari. Il pentito Francesco Di Carlo ha raccontato di un incontro a Milano organizzato fra alcuni mafiosi palermitani e l'imprenditore, nel suo ufficio. «Si tenne fra il 16 e il 29 maggio 1974», annotano i giudici. C'erano Dell'Utri, i mafiosi Gaetano Cinà (grande amico di Dell'Utri), Stefano Bontate, Girolamo Teresi e Di Carlo. Fu così che arrivò il boss Vittorio Mangano nella villa di Arcore di Berlusconi, ufficialmente come fattore.

La protezione dei boss. «In cambio della protezione assicurata – scrive ancora la Cassazione – Silvio Berlusconi aveva iniziato a corrispondere agli esponenti di Cosa nostra palermitana, per il tramite di Dell'Utri, cospicue somme di denaro che venivano materialmente riscosse da Cinà». Negli anni Settanta, per proteggere la famiglia a Milano. Negli anni Ottanta, per proteggere i ripetitori delle reti Fininvest in Sicilia. Circostanze sempre negate da Dell'Utri e Berlusconi. Ma è comunque l'unica verità giudiziaria confermata dalla Cassazione: tanti soldi avrebbero percorso le strade da Milano a Palermo. Racconta ancora Di Carlo che una volta, alla fine degli anni Settanta, Dell'Utri se lo ritrovò a casa di Bontate, a Palermo. «C'erano anche altre persone che non facevano parte di Cosa nostra, c’era pure un giornalista». Era un uomo di grandi relazioni, Stefano Bontate. E di tanti affari. Ma sono rimasti tanti misteri attorno ai suoi investimenti. Morto Bontate nel 1981, prosegue la Cassazione nel processo Dell'Utri, subentrarono nel rapporto di «protezione» i fratelli Giovan Battista e Ignazio Pullarà, divenuti reggenti del mandamento di Santa Maria di Gesù, quello di Bontate, appunto. Dunque – secondo i giudici – Cinà avrebbe continuato a riscuotere i soldi a Milano e, scrivono i giudici, «li faceva pervenire ai Pullarà tramite Pippo Di Napoli e Pippo Contorno». Altri pentiti, Ganci e Anzelmo, hanno raccontato le «rimostranze – dice anche questo la sentenza – fatte intorno al 1985 da Dell'Utri a Cinà per il comportamento assunto dai Pullarà, che tartassavano Berlusconi». Ha detto il pentito Angelo Siino: «Ci vanno tirando u radicuni». Finchè i Pullarà vennero destituiti dall'incarico direttamente da Riina: da quel momento, si occupò di tutto Cinà. L'obiettivo della decisione del capo dei capi era «restituire serenità al rapporto fra le due parti e consentire la prosecuzione dei pagamenti», hanno ricostruito i giudici.

La difesa del Cavaliere. Fra il 1989 e il 1992, sarebbero arrivati 200 milioni di lire all'anno: «Consegnati a Cinà – ha scritto la corte d'Appello di Palermo – e, tramite Di Napoli, a Raffaele Ganci, che li dava infine a Salvatore Riina». Dunque, ancora una volta, questa la verità giudiziaria: un patto di protezione con un imprenditore che pagava per non avere guai. E nessuna prova che soldi di mafia siano stati investiti nelle aziende di Berlusconi. Lo ha sempre ribadito l'avvocato Niccolò Ghedini, ogni qualvolta ritornava il tema in ricostruzioni giornalistiche. Ecco una delle ultime dichiarazioni, del marzo 2021: «I flussi di denaro di Fininvest sono stati oggetto di plurimi accertamenti giudiziari conclusi definitivamente con le incontrovertibili dichiarazioni del dottore Giuffrida della Banca d'Italia, consulente della procura di Palermo, che ha escluso qualsiasi flusso illecito. Sentenze definitive – proseguiva Ghedini – hanno cristalizzato piuttosto che Berlusconi, la sua famiglia e le sue società sono state oggetto di molteplici, gravissime minacce ed alcuni attentati proprio da parte della mafia». Ma adesso, dopo le dichiarazioni del boss Giuseppe Graviano, che al processo 'Ndrangheta stragista ha parlato di investimenti del nonno materno nelle aziende di Berlusconi, la procura di Firenze è tornata a indagare su Berlusconi e Dell'Utri come mandante esterno delle stragi del 1993.

L'appunto del giudice Falcone. Questa è una storia ancora piena di misteri. Qualche anno fa, un collaboratore del giudice Falcone ritrovò al palazzo di giustizia un appunto del magistrato ucciso a Capaci il 23 maggio 1992, riferito alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia, avvenute alla fine del 1989. C'è scritto su quel biglietto, svelato da Repubblica: «Michele Graviano (il padre dei Graviano - ndr.) ha perso una gamba per mettere una carica esplosiva». Poco sopra, separato da un trattino, un appunto che riguarda tutt'altro: «Cinà in buoni rapporti con Berlusconi. Berlusconi dà 20 milioni ai Grado e anche a Vittorio Mangano». Chissà perché questa sequenza nelle parole di Mannoia. Tutti gli altri temi appuntati nel foglio sono tagliati, «segno che il giudice aveva poi verbalizzato gli argomenti a cui aveva fatto cenno inizialmente il collaboratore», ha spiegato Paparcuri. Le annotazioni su Berlusconi e sul padre dei Graviano sono rimaste invece fuori dai verbali di quei giorni. E continueranno a restare fuori dalle parole di Mannoia anche quando verrà citato al processo nei confronti di Marcello Dell'Utri. Ancora silenzi.


La Repubblica, 12 giugno 2023
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